Babylon City

Copertina Catalogo Babylon City di Mariarosaria Stigliano
Catalogo della mostra Babylon City di Mariarosaria Stigliano, 2014

Sabato 29 marzo 2014 alle 18:30 si inaugura presso la Galleria SMAC – Segni Mutanti Arte Contemporanea di Roma la mostra “Babylon City” dell’artista Mariarosaria Stigliano.

Catalogo Collezione SMAC n 6
Testi: Mara Venuto, Lucrezia Naglieri, Giorgia Sbuelz
Progetto grafico e foto: Bruno Parretti

SMAC – Segni Mutanti Arte Contemporanea,
Via Velletri, 30 – Roma

La mostra sarà aperta dal 29 marzo al 26 aprile

Tel/Fax: +39 06 64780359
Email: info@segnimutanti.it
Orari: dal martedì al sabato dalle 11:00 alle 18:00 e su appuntamento

La Babilonia di Mariarosaria Stigliano

di Mara Venuto

Tu ti inganni, figlio mio“, mi ha detto. “Ti si potrebbe domandare di più. Te lo domanderanno, forse”. “E che cosa mai?“.
Ti potrebbe esser chiesto di vedere“.

Albert Camus, Lo Straniero, Bompiani, Milano, 2001.

Travi risalite dalla ruggine, fili elettrici pendenti ed esposti, pareti polverose investite d’ombra. In terra, frammenti dismessi di un’operosità macchinosa ora spenta, silente.
La luce piove dall’alto e disegna nuovi paesaggi umani facendo emergere dal buio, di muraglie di ferro e cemento, sagome che si limitano a suggerire la vita senza assumerne lo scorrere potente.
Che siano espressione di un’architettura industriale ormai priva di umanità e dismessa, oppure istantanee metropolitane dai profili acuminati in cui fluttuano figure disincarnate, gli spazi ricreati da Mariarosaria Stigliano sono paradigmatici di una società che ha rifondato la propria spiritualità su calce, valvole e gelo. Ed è rimasta muta in una preghiera solitaria, svuotata di ragione.

Testimone della poesia di assenze, silenzi e scommesse perdute, l’artista come una contemporanea Cassandra, vaticina un futuro che è già scritto nel presente. E segna a fondo, con impronte digitali sinestesiche, realtà plurime parallele. Mescola, in un alambicco da alchimista, i colori, i piani, le prospettive, rigenerando la materia in una nuova sostanza.

Con l’ausilio e la poliedricità delle tecniche miste, in una contaminazione sapiente di materiali e mezzi, l’autrice plasma un mondo-altro che racconta l’Invisibile, il non detto, il sussurrato in apnea.

Paure inconfessate, desideri violenti e muti agitano appena il pelo dell’acqua ed evocano movimenti tellurici sotterranei. Fabbriche abbandonate come cattedrali senza fedeli né culti; città popolate di presenze assenti che alla terra restano aggrappate; visioni d’esterno confuse in un anonimato che stordisce; luci abbacinanti che segnalano vite nascoste da muri e pareti: a Babylon City ogni contatto è precluso. Mariarosaria Stigliano frattura la parete fitta dell’ovvietà, dei formalismi e delle ipocrisie di comodo e, in un lento e solitario vagabondaggio di figure coraggiose e isolate, svela il bisogno di liberazione rispetto a strutture che costruiscono identità, piuttosto che esserne il prodotto.

Attraverso opere in cui l’Io sembra annaspare, vittima dello straniamento camusiano, l’artista invoca a gran voce occhi che sappiano vedere ciò che le città di ferro e cemento sono diventate: materiali assemblati, funzionali non alla vita ma all’uso, alla produzione, all’utile, in una catena di montaggio esistenziale che esclude la vocazione umana alla ricerca di un senso individuale e comunitario. Le città della Stigliano e anche gli ambienti privati, non a caso disabitati, esprimono panorami in cui nessun uomo è protagonista. Nelle case, gli oggetti si impadroniscono dello spazio, e persino l’ordine con cui sono disposti evoca un disordine inevitabile, in assenza di una mano ordinatrice mossa da volontà e aspirazioni umane. La desolazione degli orizzonti urbani rende imprescindibile l’anelito alla nuova centralità della creatura sul creato e su quella Babilonia contemporanea di cui è essa stessa fattrice.

Olio, acrilico, matite, pennarelli, smalti, tutto è impastato, mescolato, ricomposto e asservito al senso sapiente e consapevole di ri-costruzione della realtà. La perizia esecutiva dell’autrice, l’espressionismo lucido e addomesticato dal concept, diventano funzionali alla rilettura del mondo noto e familiare.

Oggetti correnti e luoghi abitati, strumenti usuali e ambienti quotidiani, da lindi, definiti e definibili – come li esige l’uomo assetato di certezze e di nuovi vocabolari universali- divengono spazi d’ombra e di interrogativi. Il senso che sfugge, l’incomprensibile, il dubbio su una fondatezza del vivere che si diluisce come colore nell’acqua, si insinuano nelle opere dell’artista e nell’occhio dello spettatore, che resta sedotto e imprigionato nel cono d’ombra e nell’atmosfera extra-dimensionale creati dal segno pittorico e dal graffio chirurgico e profondo impresso dalla grafite.

Una prospettiva geometrica e severa affianca l’oscurità che non si ritira con l’avvento della luce ma sfuma in dissolvenza, perdendosi negli spazi evocativi di luoghi non luoghi: forse fabbriche, stazioni e chiese abbandonate; forse metropoli o piccoli borghi; forse case disabitate o stanze di passaggio. La Stigliano racconta la desolazione del presente conosciuto mediante l’abbandono di ambienti un tempo vissuti e vivi e, ritraendo figure isolate, invoca alterità e contatto, nella solitudine di presenze sfumate non comunicanti, ingabbiate dal silenzio e mangiate dall’ombra. La prospettiva è obliqua, il mondo è sbilanciato, il conosciuto resta sempre da orientare. In uno spazio operaio vuoto e smantellato, così come in un piano urbano confuso e confondente, la stabilità resta un’illusione, un’accecante sovrastruttura. Solo la luce che scende come cascata dall’alto, esaltata dal buio, trasporta in un altrove né nitido né sereno, irreale ma auspicabile nella sua ricerca di una dimensione alternativa, al di là della materia accatastata e dismessa, e di un’umanità sovrastata, nascosta e irraggiungibile.

Eppure, la rappresentazione metropolitana della Stigliano esclude qualsiasi domanda di risarcimento: non incuba rabbia e delusione, non condanna il ventre che ha generato nè quello che accoglie. L’artista, in veste di osservatrice non giudicante, eppure nient’affatto a-critica, si immerge nelle viscere di una città incarnazione dello Spazio-Tempo, accelerato e colto nel momento dello slancio verso un orizzonte che non vediamo. L’autrice preferisce immortalare un dinamismo troncato, mozzo, un atto che dovrebbe condurre al nuovo e che potrebbe, invece, prodursi in nulla.

Agli abitanti di quelle lande desolate di cemento e acciaio, vagheggiate da uno sguardo confidente, è lasciata la libertà di salvarsi. Babilonia è caduta. Mentre non è ancora scritto il destino di Venezia, Roma, Parigi, Berlino, Taranto, per citare alcuni dei luoghi protagonisti delle opere, mai troppo riconoscibili, e talvolta del tutto immaginari, affinché restino archetipi.
Tuttavia, la resistenza alla dissoluzione non appartiene alla solidità delle mura bensì alle creature smarrite, sole o immerse in una marcia non comunicante, le quali fluttuano come spiriti in uno spazio in dissolvenza. La Stigliano le colloca come anime senza ossa né sangue, evocanti la fiammella vitale di quegli stessi luoghi, ritratte nel gesto dell’andare che sembra escludere una direzione scelta, per suggerire un abbandono all’inerzia, al flusso trascinante di una corrente che sfida la volontà.

Il rapporto fra l’artista e l’urbanità trascende il comune senso dell’abitare. Non è casa, non è radici, non è luogo di rifugio. La Babilonia di Mariarosaria Stigliano è una prigione di non senso da cui trarsi fuori cercando un alito di vita nella nascita di un nuovo e necessario sé sociale, generato dal logos.
È solo così che può cominciare a sgretolarsi la Torre di Babele dalle mille lingue sconosciute, simbolo del destino di generazioni private del ruolo di membra cooperanti. Il Tutto gestaltico, quel corpo che è e vale di più della somma delle singole parti, esige di ritrovare il suo posto nelle coscienze.
Non a caso, persino nell’attualità dei panorami raffigurati, le opere di Mariarosaria Stigliano sono penetrate da un’aura di nostalgia, le tecniche sono manipolate con sapienza affinché la contemporanità sia ammantata di rimpianto.

L’assenza di un passato nutrito da relazioni confortanti è amplificata dalla luce tiepida riflessa sulle travi di metallo, sul cemento del manto stradale e dei rivestimenti dei capannoni industriali. Tutto, nell’autrice, è funzionale a riaprire la ferita inferta dall’indifferenza della materia sull’umanità. I polittici, in particolare, sembrano rispondere all’appello a rappresentare in modo netto la soffocante compressione della libertà d’espressione all’interno di binari già determinati, spesso morti. Nessuna ricerca di autenticità del sé sembra avere margini per evadere dalla gabbia. Nondimeno, se per la legge del contrasto il buio è l’assenza della luce, in Babylon City la disumanizzazione altro non è che l’abdicazione dell’uomo alla propria centralità, in un progressivo ritrarsi come ombra fino ai margini, nella rinuncia a lottare per essere protagonista, mutando la prospettiva da spettatore a osservatore privilegiato, da ospite a titolare di vestigia urbane, memorie storiche e spirito di comunità.

La stessa apertura della mostra rivela, infine, le intenzioni dell’autrice: gli spettatori sono investiti dalla potenza visiva e propulsiva di una locomotiva obsoleta, assemblaggio di ferraglie polverose e incrostate di passato, echeggianti ruggine e auspici di modernità. La motrice, nel suo allure gotico e crepuscolare, sembra voler strappare la tela su cui è incisa, per abbattere le illusioni di progresso di un’umanità persuasa d’essere creatrice e artefice della sua fortuna. Un’umanità incorrotta e confidente, lanciata verso un futuro non ancora divorato dalle “passioni tristi” spinoziane, da quella schiavitù dell’impotenza che nasce dalla dissoluzione della capacità di essere e di agire. Eredità che il fallimento del progresso, quale redenzione laica, ha consegnato nelle mani del nuovo secolo.