No Time

Venerdì 11 settembre presso la Galleria dell’Ombra di Brescia si apre la personale “NO TIME” dell’artista Mariarosaria Stigliano. “No Time” è l’approfondimento di quella linea di ricerca già iniziata alcuni anni or sono con cui l’artista ci parla di uomini in movimento, di viaggi, di sale d’attesa, di metropolitane, di spostamenti nello spazio che rendono uguali tutti i luoghi, che fanno da sfondo ai suoi protagonisti che sembrano cercare un’identità inserendosi negli spazi vuoti dell’architettura.

Mostra No Time 2009 a Brescia
NO TIME, mostra del 2009 a Brescia

La definizione precaria di Stigliano si trasferisce dai personaggi agli sfondi, con la medesima impostazione dell’occhio che scruta e dello sguardo che indaga. Il nonluogo è il nostro spazio vitale; cui si collega in quest’ultimo ciclo, che si espone a Brescia per la prima volta, il nontempo, quest’attualità inquietante e senza volto, che sembra suggellare indefinitamente un’identità perduta: non c’è più, per questi personaggi, alcun tempo.

Galleria dell’Ombra
Via Nino Bixio 14/A, Brescia
Dall’11 settembre al 3 ottobre 2009
Orari dal martedì al sabato, ore 17.00-23.00
Vernissage: 11 SETTEMBRE 2009 dalle ore 19.00
con un intervento del critico Mauro Corradini, autore dei testi in catalogo.
Curatore: Francesca Silveri

NO TIME: i passeggeri senza tempo di Mariarosaria Stigliano

Amara constatazione quella di Rainer Maria Rilke, derivata dalla cultura romantica, quando afferma che per l’uomo “non c’è più luogo alcuno per stare” (1); la riflessione fa cogliere al poeta, nell’opera di Cézanne, ammirato e amato di colpo, dopo l’accostamento e la “scoperta” nell’antologica postuma, organizzata dagli amici al Salon d’Automne, 1907, la certezza prodigiosa di una pittura che sappia fare uscire la realtà dal senso estremo di precarietà cui era giunta nella crisi linguistica tra fine Ottocento e inizi Novecento: Cézanne non usa il colore per ornare o rappresentare, ma solo “per fare con esso le cose”. O rifare, considerati i tempi, e ritrovare quella forma che traesse il reale dalla precarietà in cui era collocato, in quello straordinario ribaltamento (non solo visivo) che l’arte compie per l’intera storia della cultura.

I disegni di Mariarosaria Stigliano (Passengers, 2007), che costituiscono l’incunabolo delle opere recenti, suggeriscono anch’essi il senso di precarietà dell’essere, cui si aggiunge, contenuto similare dal punto di vista valoriale, ma assai diverso sia dal punto di vista espressivo che dal punto di vista concettuale, il senso della fragilità che viene dal transito, dal movimento, il senso dell’attesa dell’incontro più o meno voluto e cercato che fermi il nostro incessante andare e dia un significato al nostro essere nel mondo. Siamo ormai lontani dall’anonimato urbano che la sociologia scopre oltre mezzo secolo fa; siamo in una realtà comunicativa solo apparentemente simile; anche nell’attesa, in quel luogo dove si consumano gli incontri di un attimo, in quello spazio sospeso in cui viviamo l’esistenza alla ricerca di una solidità che non riusciamo mai a cogliere (vivere), il contesto stilistico con cui Mariarosaria definisce le sue figure, i suoi personaggi, ci conduce verso una dimensione di indefinitezza che collima o almeno si declina con la precarietà, che Rilke avvertiva all’inizio del secolo scorso.

È la dimensione da cui deriva il titolo di questa nuova raccolta di pagine, No time; ma è anche non tanto la conclusione, quanto l’approfondimento di quella linea di ricerca che prende avvio alcuni anni or sono, quando assume decisamente il senso di una scelta la stessa carriera della pittrice, ad iniziare con l’importante personale intitolata A/R (Andata e ritorno), 2007, con cui Mariarosaria ci parla di uomini in movimento, di viaggi, di sale d’attesa, di metropolitane, di spostamenti nello spazio che rendono uguali tutti i luoghi, che si confondono pur nella diversità delle strutture che fanno da sfondo ai suoi protagonisti che sembrano cercare un’identità inserendosi negli spazi vuoti dell’architettura (sia di città che di stazione). La definizione precaria di Stigliano si trasferisce dai personaggi agli sfondi, con la medesima impostazione dell’occhio che scruta e dello sguardo che indaga, con una ulteriore precarietà costruita attraverso la posizione obliqua, e pertanto instabile per noi lettori, dei suoi personaggi.
Il modello rappresentativo, costruito per fratture, con scarti, segni iterati e interrotti non solo rende precaria l’immagine del personaggio, l’iconografia di questo “non uomo” che si muove in uno spazio non suo, ma rende precario e fragile anche l’ambiente, fino al punto di trasformare la visione della città, l’immagine della fermata di una metropolitana, la pensilina ferroviaria, l’angolo di una qualsiasi metropoli in un nonluogo, realtà urbana in cui siamo imprigionati. Il nonluogo è il nostro spazio vitale; cui si collega in quest’ultimo ciclo, che si espone a Brescia per la prima volta, il nontempo, quest’attualità inquietante e senza volto, che sembra suggellare indefinitamente un’identità perduta: non c’è più, per questi personaggi, alcun tempo, nessun tempo è rimasto; quale tempo, del resto, per una realtà resa precaria nell’attesa del nulla?
E proprio mentre pittoricamente Mariarosaria porta in campo in forme nette la ricerca reale, in un’epoca che sembra appassionarsi sia agli ultimi esiti di una sperimentazione ormai giunta agli estremi di un parossismo verso il nuovo, che alla perdurante esperienza di un astrattismo del tutto separato dal reale, approda all’immagine del suo contrario; mentre Stigliano persegue la sua ricerca rappresentativa, quasi spasmodica, del micro, del particolare localizzabile, dell’identità rintracciata nel minuscolo, che tradisce la storia di una civiltà che si espande verso l’insieme metropolitano, come se la pittura ritrovasse o potesse ritrovare se stessa solo nel cortile di casa, la pittrice scopre quasi contemporaneamente la non identità, il nomadismo anche nell’attesa, la dipendenza dal brulicante mondo di segni, dove tutto è mobile e pertanto tutto, da leggibile, si rende illeggibile: che cose rimane del covone di Monet? Rimane una traccia inconoscibile, contro cui si inalbera Kandinskij, per comprendere, subito dopo, che in quel colore senza forma in realtà si ritrova pienamente la pittura, quella nuova linea stilistica che non aveva più bisogno di verosimiglianza.
Ci conduce Mariarosaria in una mondo nostro, reale, riconoscibile, nonostante la velocità nella sedimentazione stessa dei segni, nella stratificazione delle tracce di pastello che dialogano con la grafite, nelle tracce d’olio che sembrano dar volto al bisogno di colore dell’autrice; la pittrice ci guida nel mondo frastagliato e abbagliato dalle luci che penetrano ovunque, negli interstizi e nelle fessure, senza toglierci, nonostante gli abbagli, la concretezza delle “cose” (ma siamo noi le cose che la pittrice ama fermare sulla tela). Con Stigliano entriamo in un mondo fragile, appena percettibile e leggibile e tuttavia vivo, vicino, percepibile; siamo noi, con la nostra gracilità, le nostre fragilità e contemporaneamente le nostre concrete certezze, le sicurezze di un essere che vive al di fuori e nonostante le poco definibili coordinate dell’esistere.

Come sempre accade nell’opera d’arte, appare riduttivo chiudere un discorso artistico complesso all’interno delle strutture cognitive della sola sociologia; perché c’è lavoro, c’è segno, c’è pittura, c’è riflessione sulla storia (dell’arte) che attraversa tutto il secolo scorso, ad iniziare dalle contraddizioni intestine, tra forma e movimento, che compaiono già attorno alla metà del Diciannovesimo secolo ad animare e agitare le vicende della pittura.
Quella di Mariarosaria non è una riflessione sulla vita attuale, sulle sue frenesie e sulla sostanziale spersonalizzazione di noi tutti (fatto salvo l’individuale quarto d’ora di celebrità, come diceva Warhol, necessario a chiunque); quella di Mariarosaria è principalmente una ricerca espressiva; punta essenzialmente sul segno, e poiché non vuole perdere il colore, transita agevolmente dalla grafite al pastello, recuperando questo strumento un po’ obsoleto, il pastello, che ha la magica facoltà di essere ad un tempo segno e colore, come ci hanno insegnato i grandi divisionisti di fine Ottocento. Attraverso il pastello il segno non solo delimita, spezza, frantuma la figura, ma dà corpo a quelle ombre di luce che sembrano scandire l’universo quotidiano del nostro esistere, uno spazio noir dove tutto appare attraversato da bagliori di luce che non sappiamo da dove provengano, ma servono ad allungare le nostre ombre, allungare la nostra figura, rendere instabile ogni nostra posizione; e proprio questa instabilità è la chiave per comprendere il senso vero della ricerca di Stigliano.
A questa logica del segno, aggiunge la pittrice una posizione meno netta, incerta della figura; l’immagine deriva da una fotografia, scattata con lo scarto dell’obiettivo nei confronti dell’ortogonalità della rappresentazione; vuole cercare una figura in cui evidente appaia l’instabilità individuale; la verticalità, che dell’uomo è carattere nel mondo dei primati, viene rimessa in discussione, appare modificata dalla posizione di “ripresa” (termine scelto a sottolineare l’origine fotografica dell’immagine, l’input mentale, se non specifico, dell’operazione raffigurativa). Siamo precari nei termini complessivi dell’essere, instabili; come piccole vele mosse dal vento di direzione costantemente variabile.
Tutto l’orizzonte della scena viene modificato dallo sguardo, che si colloca sempre in una posizione peculiare; allo stesso modo, recuperiamo quasi di sfuggita, pur nella sua importanza strutturale, l’atmosfera noir che abbiamo evocato: nell’iconografia di Mariarosaria non accade nulla, ma tutto potrebbe accadere. Forse c’è un legame, meno diretto e meno dichiarato, con la cultura pop che si rifaceva al fumetto; lasciato alle spalle da una tendenza rinnovata da una più ampia coerenza poetica, l’autrice non dimentica tuttavia qualche episodio, carico di fascinazione; e di magie. La scena allora si fa ancor più inquietante, apre al percorso dell’animo, ci tocca e ci pone domande. Il ritmo stesso della rappresentazione sembra farsi più serrato, sembra voler dichiarare la propria dimensione senza tempo; negando lo spazio si nega anche il tempo; accelerando il ritmo si giunge ad un non-ritmo dove nulla è più comprensibile e inquadrabile nel nostro bisogno di essere nel mondo.
Senza nulla perdere nella pittura.
È il fascino segreto che Mariarosaria Stigliano vuole partecipare al lettore, il bisogno di radicare le forme in una storia, per negarla magari e allontanarsene, ma non così tanto da non lasciare tracce e memorie di una vicenda piena di entusiasmi e cadute; è la nostra storia riletta con l’occhio giovane di chi vuole ri-costruire, partendo dalla constatazione (ma stavamo scrivendo dall’amarezza della constatazione) di un’instabilità che se è certamente piena di risorse e scoperte, è altrettanto piena di insidie: nel nomadismo non fisico ma concettuale si aprono orizzonti, non sempre riconoscibili e percorribili dalla nostra fragilità.

Mauro Corradini, Gussago, luglio-agosto 2009

(1) Nota: la citazione iniziale è tratta da R. M. RILKE, Elegie duinesi, I, v. 53.